A volte ritornano ... i padroni della terra

A volte ritornano” non è solo un film horror, anche se in questo caso ne ha tutte le caratteristiche, ma un' espressione che indica un costume connaturato all’uomo, un'abitudine dura a morire, che tende a riaffiorare anche quando si pensa di averla sotterrata sotto una coltre di cemento. Come una “coazione a ripetere” di freudiano memoria. Né più né meno. No, non parliamo del nazi-fascismo ...

Si parla del caro vecchio vizietto della colonizzazione. Vetusto argomento da quando i greci, attorno al 700 a.c., sentendosi troppo stretti a casa loro e alla costante ricerca di spazi vitali, principiarono a riversarsi nello Ionio gettando così le basi della società occidentale. Esattamente quella di cui siamo eredi per discendenza diretta. Accostandoci un po' più ai nostri giorni, dopo la spartizione "romantica" e di certo non indolore dell'Africa e di parte del sud est asiatico di stampo ottocentesco, e dopo aver registrato negli anni ‘60 del secolo scorso il lungo processo di decolonizzazione, che ne certificava il relativo fallimento, ecco che in questi ultimi due decenni assistiamo improvvisamente ad una nuova forma di spartizione delle terre del mondo.

Stavolta, fetta a fetta. In piena austerità economica e nel pieno della consapevolezza della società liquida. E alla faccia del political correct, ci tocchera' forse ribattezzare lo scorcio in cui viviamo: “era del land grabbing”, volgarmente traducibile in  “periodo degli arraffatori di terra". In una parola, ladri di pollame. Se non altro perchè razzolano dove di becchime ce n'è davvero poco.

Quello del land grabbing, cioè dell’appropriazione sleale di enormi appezzamenti di terreno a fini di sfruttamento, è ormai un fenomeno da anni sulla cresta dell’onda. Secondo quanto ci racconta il rapporto di Focsiv (una federazione che raggruppa 87 Ong), dal titolo inequivocabile “I padroni della terra”, la cui quarta edizione è attesa ormai a giorni: sono quasi 80 milioni gli ettari di terra fertile e di acque che le multinazionali dell’agri-business, i fondi di investimento internazionali e alcuni Stati sovrani gestiscono, avendole sottratte a torto o a ragione alle comunità cui appartenevano di diritto. Ovviamente, con il beneplacito delle autorità locali spesso corruttibili e, di norma, corrotte. Si tratta quindi di una superficie enorme, complessivamente pari a più di due volte e mezza quella dell’Italia.

Un sistema del tutto iniquo che oltre a porre una seria minaccia per l’ambiente, sfruttando le terre in modo spesso non sostenibile, nella maggior parte dei casi mette anche a repentaglio i diritti umani di contadini locali e dei popoli indigeni, generando sacche di nuove povertà, che rischiano di accelerare nuovi e incontrollati fenomeni di migrazione forzata. Un sistema dunque non propriamente innocuo ...di cui conosciamo bene solo la parte finale: ossia, il dibattito  spesso surreale e certamente strumentalizzato sui flussi migratori. 

Per il quarto anno consecutivo, il Rapporto del Focsiv ci porterà dentro al fenomeno del land grabbing, offrendosi di far luce sulle storture di un sistema che rischia di stressare in maniera irreversibile i sottili e delicati equilibri del nostro pianeta. “Un sistema che”, come si legge a consuntivo della nota della scorsa edizione, “sfrutta al massimo le risorse della terra per fare profitto, inducendo e soddisfacendo, al contempo, il desiderio di consumo del mondo ricco ed emergente”. Padroni della Terra è, quindi, una denuncia ed insieme, un invito ad una riflessione su quanto sta accadendo in ogni parte del mondo. Ed è reso possibile attraverso un’analisi approfondita dei dati, acquisiti grazie all’utilizzo del database Landmatrix (https://landmatrix.org/) che raccoglie informazioni sui contratti di cessione e affitto di grandi estensioni di terra, indagando sui meccanismi che provocano i conflitti e le tensioni tra imprese, finanza e Stati con le comunità locali.

In tal senso, incrociando ed elaborando tutti questi dati, Focsiv si propone come sostegno e difesa dei diritti umani e di affiancamento alle lotte dei popoli indigeni e delle comunità locali. Non è un mistero che grazie a tali rapporti si sia risaliti alle cause di assassinio di ben 472 leader indigeni, uccisi dal 2017 al 2019 per essersi opposti “alla devastazione e all’inquinamento su grande scala di foreste, terra e acqua e lottando in difesa del Pianeta e del diritto di ciascuno a vivere in un ambiente salubre e sostenibile”.

A farla da padroni in questo business sempre più incontrollato, troviamo, manco a dirlo, i grandi paesi investitori, quali la Cina, gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, la Svizzera, il Canada e la Russia, che concentrano nei loro possedimenti oltre 60 milioni di ettari di terre. Mentre ad essere colpiti dallo sfruttamento sono il Sudamerica (Perù e Brasile principalmente) il continente africano (Etiopia, Congo, Repubblica Centrafricana, Kenia, Nigeria), la stessa Federazione Russa, diversi paesi del sud-est asiatico e, ultimamente, alle porte dell’Europa anche l’Ucraina. Tutti paesi con enormi quantità di terra fertile e risorse naturali ancora disponibili.

Con il passare degli anni, dunque, la corsa alla terra aumenta, nonostante il forte impegno dei movimenti ambientalisti e le promesse di "dovuta diligenza" e impegno delle aziende europee. Nel data base di LandMatrix si evidenziano le intenzioni di investimento che comprendono principalmente: la produzione di colture alimentari, di biocarburanti, di beni agricoli non alimentari, l’allevamento, la produzione di mangime, le miniere, la gestione di foreste per il taglio del legno e la produzione di fibre, le piantagioni, la conservazione, l’uso del suolo per l’industria, la speculazione.

Gli investimenti industriali sullo sfruttamento della terra si concentrano soprattutto in Asia e in Africa, la speculazione sembra farla da padrone in Europa orientale, la conservazione in America latina, mentre per le energie rinnovabili, come ad esempio la costruzione di dighe, è in Oceania che bisogna andare.

Operazioni che, sebbene rappresentino la prova provata di una hybris istituzionale dei governi locali, non sempre però vanno a buon fine. Indicativo il caso del Brasile dove nel 2019, diverse torbide operazioni di imprese petrolifere hanno generato una massiccia presa di posizione dei popoli dell'Amazzonia e dell'opinione pubblica brasiliana, ricevendo il sostegno anche di Papa Francesco.

Mentre, di regola avviene il contrario.  Eclatante, solo per citarne uno, il caso di appropriazione in Congo, produttore del 70% del cobalto in commercio, a grave danno delle popolazioni autoctone. Il cobalto, ricordiamo, è il materiale su cui viene basata la costruzione delle batterie delle auto elettriche. Qui e' accaduto che la richiesta di materiale negli ultimi anni è aumentata a tal punto che le aziende, pur di rimanere nel mercato, oltre all’espropriazione delle terre fatte a monte, ricorrono al lavoro deregolato: lavoro minorile, sfruttamento e condizioni di lavoro drammatiche, con sistematiche violazioni dei diritti umani. E nessun tribunale cui appellarsi. 

Un business quello del land grabbing dal quale l’Italia non è certamente esente. Si calcola che il nostro Paese negli ultimi anni abbia comprato o affittato un milione e 100 mila ettari con 30 contratti in 13 Paesi, fra cui l’Etiopia: le aziende italiane beneficiano di un affitto per 70 anni, per il valore di 2,5 euro l’ettaro. Nell’elenco delle aziende che possiedono terreni all’estero ci sono, ad esempio, Agrioils, Arkadia, Avia che hanno comprato terreni in Ghana, Tanzania e Mozambico per produrre biocarburanti. Ma c’è, soprattutto, l’Eni che, per lo stesso scopo, ha comprato terreni in Mozambico, Angola e Congo. Tra le 17 aziende tricolori che hanno comprato terre nell’Africa orientale e occidentale ci sono anche imprese di cui si sente poco parlare come la Tozzi (Madagascar), la Tampieri (Senegal), la Sogein (Mozambico) e la Maccaferri (Mozambico). Sempre citando le fonti LandMatrix.

Fra i colossi europei, non mancano le banche di sviluppo, ovviamente, con ben 4  quattro importanti esemplari: la Deg tedesca, la Bio belga, la Fmo olandese e il Cdc Group inglese, che hanno investito milioni di euro nelle attività della Feronia Inc., una società congolese che, attraverso la sua controllata, la Plantations et Huileries du Congo, gestisce tre piantagioni di palma da olio su oltre 100.000 ettari nel Nord del Congo. Secondo Human Rights Watch più di 200 lavoratori della Feronia sono esposti a pesticidi cancerogeni e molti di loro lavorano per meno di 1,50 dollari al giorno.

Come intervenire dunque per arginare il fenomeno di questo che si presenta forse in forma anche peggiore rispetto al colonialismo d'antan? Difficile dirlo. Molto difficile. Di certo si dovrebbe partire da uno sviluppo sostenibile nel rispetto dei diritti della terra, lavorando sull’imposizione di regole certe e condivise lungo la filiera del cibo e più in generale dell' estrazione delle risorse naturali. Un argomento che ci si augura possa essere posto al centro del dibattito alle Nazioni Unite, magari a partire dal prossimo impegno: il Pre-Summit ONU previsto a Roma, dal 26 al 28 luglio. Un’occasione per l’Europa e per il Mondo per discutere di nuove regole e della loro applicazione. Sforzandosi tutti insieme di far dialogare la mano destra con quella sinistra: circoscrivendo le azioni delle multinazionali abituate a fare il bello e il cattivo tempo; stilando linee guida per uno sviluppo alla pari e potenziando il peso della Cooperazione Internazionale, in modo da favorire l’investimento agro-ecologico dei contadini e dei popoli indigeni sui propri territori. Ecco, suggerirei però di sbrigarsi ...  prima che rubino loro anche gli ultimi fazzoletti di terra a disposizione  … 

24 giugno 2021