Ricordo quando qualche decina di anni fa, mettendo piede per la prima volta sull’isola di Pantelleria, rimasi colpito da un episodio che poi è tornato utile per spiegare a me stesso il significato della parola “talassofobia", la paura del mare. A bordo di una Panda 45 color ruggine, insieme ad una manciata di amici, venimmo così scoprendo i contorni di quell’isola atipica e insieme bellissima, a suo modo eccentrica e dotata di una buona dose di selvaggia stravaganza e di languida, quasi compiaciuta, indolenza.
Tutte caratteristiche forse comuni alle piccole isole o, almeno, tipiche di quelle isole distanti dalla terraferma, abbastanza da non permettere di scorgerne i profili all’orizzonte. Nel corso di quella breve vacanza, spesa nel lento e piacevole caracollare, fra uno stop and go e l'altro sulla strada Perimetrale, un paio di cose colpirono la nostra attenzione. Intanto il paesaggio fiabesco attorno al villaggio di Gadir, a nord-est dell’isola, ridipinto dai magnifici terrazzamenti sui cui pendii si allevano gli alberelli del rinomato Zibibbo e intervallato dalle tradizionali case in pietra con il tipico tetto a dammuso. E in secondo luogo, il Mare tutto intorno, costantemente increspato dalle correnti dello stretto di Sicilia, dal colore blu cobalto e intuitivamente profondo come la Fossa delle Marianne.
Senonché, immersi in quell' onnipresente e idilliaco paesaggio marittimo, notammo qualcosa di strano: le barche, i pescherecci, i natanti che di solito fanno da cornice ad ogni località rivierasca che si rispetti, qui invece sembravano scomparsi. Colpiti da questo mistero cominciammo pertanto ad indagare, pescando fra quegli isolani che solevano trascorrere l'ora della siesta adagiati mollemente sulle panchine del lungomare. Dove erano andati a finire tutti i natanti? Chiedevamo loro. Era mai concepibile un porto senza barche? Con la sola eccezione del traghetto che faceva la spola da Trapani e di poche altre imbarcazioni da diporto, peraltro di proprieta' di qualche turista. Che fossero usciti in mare tutti insieme contemporaneamente? Ma, a giudicare dal loro sguardo divertito, sembrava che non prendessero troppo sul serio le nostre domande.
Il mistero venne dissipato solo nel tardo vespero quando abbordammo un decano pantesco dall’aria apparentemente schiva e diffidente. Dopo averci studiato per un po', come si fa con degli stranieri, specie se li si giudica un po' naif, intuito che le nostre domande erano dettate da una sana curiosità, ci sorrise in maniera sorniona e prese a raccontarci pazientemente la storia della sua isola. Senonche', alla fine del suo racconto ci sentimmo un po' spaesati e interdetti.
Che un'isola, a non meno di cento miglia nautiche dalla terraferma, non riuscisse ad annoverare un vero e proprio ceto di pescatori e di maestranze marittime fra i propri membri, ci sembrò davvero una cosa inconcepibile. Verosimili invece i motivi di questa scelta di campo “non marittima” della sua forza lavoro: da ricercare nella ricchezza delle sue terre e nell’agio che l'agricoltura procurava loro. Mentre non facemmo alcuna fatica a comprendere che il mare con tutto il suo potente corollario iconografico (onde, tempeste, vortici e maremoti) potesse rappresentare, anche per un isolano nato e cresciuto, un’indubbia fonte di paura e di malcelata preoccupazione: la talassofobia, di cui sopra. Ora, il caso di Pantelleria potrebbe forse aiutare ad illuminare questa piccola grande tragedia tutta italica.
Pur essendo l'Italia una penisola bagnata da tre mari (con un’estensione di oltre 7 mila km di coste) sembra quasi che gli italiani non se ne curino affatto, o peggio, che non gli tributino la giusta importanza: in primis economica, poi strategica (difesa) e infine geopolitica , ossia di proiezione culturale nel proprio bacino di appartenenza. Ma tutto ciò si può solo in parte spiegare con l'atavica paura del mare di cui soffre ultimamente la nostra penisola e le sue genti. C'è dell'altro ovviamente.
In questi giorni è stata pubblicata la nuova monografia di Limes, rivista di geopolitica per eccellenza, che ha come titolo “L’Italia è il mare”. Alla base delle interessantissime tesi dei suoi analisti, sulla clamorosa mancata marittimità dell’Italia, ci stanno diversi fattori di natura storica, strategica e geopolitica. In breve, secondo Limes, il primo dei motivi è da ricercare nella sua storia recente: sia nell’unificazione politica pensata e realizzata nel 1861 dai Piemontesi, poco familiari con i flutti marini, con l’aiuto interessato della Marina Britannica che non vedeva l'ora di sbarazzarsi di un temibile competitor, il Regno delle due Sicilie, che imperniava la sua forza sulla propria vocazione navale; sia poi, più recentemente, dopo la seconda guerra mondiale, con l’occupazione militare, oltre che politica e culturale, degli Americani che ne hanno da sempre frenato il proprio sviluppo talassocratico.
Strategicamente poi sembra che l’Italia si sia sempre più preoccupata di saldarsi al resto dell’Europa continentale piuttosto che sfruttare una via alternativa di sviluppo marittimo, sentendosi a proprio agio a rincorrere la propria gloria oltre le Alpi, con alterne fortune; alimentando peraltro quel senso tutto italico di sudditanza psicologica nei confronti della Mittel Europa e della Francia (per non parlare della Gran Bretagna). C’è anche un fattore geopolitico legato all’assetto economico dell’Italia: da sempre le due regioni motore dell’economia italica, Lombardia e Piemonte, prive di sbocchi a mare, ne hanno indubbiamente indirizzato la politica e le scelte di campo. A queste due regioni, con scarso interesse nel Mediterraneo, si sono via via associate anche il Veneto e il Friuli che, pur essendo marittime, hanno abdicato ormai da tempo al controllo delle acque. Con il risultato che la gestione del mare è lasciata alle regioni più economicamente deboli del sud, di fatto derubricata ad affare regionale. Soltanto in un caso, durante il ventennio fascista (al tempo degli slogan: “spezzeremo le reni ai greci” e “faccetta nera”, giusto per capirci...) il baricentro strategico del paese, spostandosi su Roma capitale, è sembrato gravitare più insistentemente sul mare: vedasi campagne militari di Libia, di Grecia e Albania e la conquista dell’Etiopia con la nascita dell’Impero. Con risultati a dir poco funesti, come è notorio.
Negli ultimi vent’anni poi, grazie o a causa della propaganda europeista, si è acuito ancor di più questo senso di estraneità al mare: vuoi per il diffuso orrore per il Medio Oriente e per il Maghreb, considerati quadranti da cancellare dai radar, vuoi per il pasticcio incredibile sulla Libia, unica proiezione economico/culturale stabile e di un certo peso che l’Italia poteva annoverare, ma che e' riuscita a dilapidare (ai tempi della presidenza di Berlusconi) a vantaggio di altri competitors europei. Il disastro della Libia negli ultimi anni e' sotto gli occhi di tutti. Non solo, l’Italia non è riuscita ad essere egemone culturalmente negli spazi di casa propria, nemmeno in quelli più prossimi: ne sono un esempio Malta che, sebbene sia più vicina all’Italia di quanto non sia Lampedusa o la stessa Pantelleria, si continua a professare “di cultura britannica” o l’Albania che, nonostante sia stata allevata da modelli televisivi e culturali italiani, pur potendo contare su generazioni e generazioni che vedevano la Penisola come un faro ( non solo ai tempi de Lamerica di Amelio, ma anche più recentemente), sta da tempo ormai registrando una battuta di arresto nei rapporti con l'Italia, a causa dell’avanzata inesorabile di capitali europei, specialmente tedeschi e turchi.
Insomma, nonostante la penisola sia immersa dal collo in giù in una immensa piscina piena di acqua, sembra non essere riuscita mai ad imparare a nuotare. O meglio sarebbe dire, sembra che abbia disimparato a nuotare. Nel corso dei millenni infatti l’Italia è stata la culla di diverse nazioni marittime: dagli antichi Romani che da pastori si fecero marinai per poi globalizzare (2000 anni fa) incredibilmente tutto il Mediterraneo, alle medievali repubbliche marinare (Genova, Pisa, Amalfi, Venezia) che riuscirono per secoli a mantenere la penisola nel suo elemento. Per non parlare di grandi esempi di marinai, Amerigo Vespucci e Cristoforo Colombo, che fecero risuonare alto nel mondo il nome dell’Italia grazie al loro coraggio e alla loro intraprendenza. Fino agli ultimi aneliti a cavallo fra il Regno di Napoli e quello della nascente Italia che permisero a compagnie come Rubattino e Florio di espandersi nel Mediterraneo e non solo.
Oggi la vulgata dominante resta invece quella di tenere i remi in barca. E il mare continua ad essere percepito come horror vacui, cortina di ferro, colonna d’Ercole verso l’ignoto e soprattutto funebre veicolo di tragedia (come tristemente documentano giorno per giorno, da anni ormai, le cronache degli sbarchi degli immigrati). Ma questa è un'altra storia ... o forse anche no...
Primo peccato capitale di questa situazione è l’inadeguatezza dei nostri porti che spesso mancano di infrastrutture. Genova è ormai un porto di terzo livello (18 esimo in Europa), il più grande d’Italia attualmente Gioia Tauro, movimenta solo il 18 % di quello di Rotterdam (il primo in Europa). Venezia è stata adibita al solo attracco di navi da crociera, Taranto è gravemente sottosviluppato, il porto di Trieste concesso a un consorzio tedesco. Tutti fallimenti che palesano lo stato dell’arte: la scarsa vocazione marittima della nostra politica.
Un giorno, probabilmente, ci sveglieremo con il Mare Nostrum di nuovo al centro degli scambi commerciali e culturali del mondo, con Turchia, Russia, i paesi Europei rivieraschi e l’America a farla da padrone. Quel giorno si spera che possa arrivare presto e ci si augura possa portare nel Mediterraneo oltre al benessere comune (all’Africa, al Medio oriente all’Europa) anche quella famosa Pax che i romani avevano imposto in nome del dio denaro, almeno quello, di Dio, in comune fra i popoli. Ecco, in quel momento, forse rimpiangeremo di aver trascurato per cosi' lungo tempo il mare di casa nostra.
E finisco tornando alla memoria delle parole del saggio decano pantesco: "i panticci si scantanu du mari, comu si c'arriva u Mammaddrau". Ossia: i panteschi hanno paura del mare come se da li' dovesse sbucare Mammaddrau. Per quelli della generazione di mio papa', Mammaddrau era una sorta di Uomo Nero, truce e violento che sbucava fuori dal mare e si portava via i bambini. La frase tipica pronunciata ai bambini disubbidienti per scoraggiare il ripetersi delle loro marachelle era infatti: viri chi veni Mammaddrau! In realta' Mammaddrau altri non era che un personaggio storico, Mohamad al Dragut (sicilianizzato Mammaddrau), vicere' di Algeri, considerato il pirata piu' violento del Cinquecento, tanto che il suo nome rievoca ancora oggi in Sicilia il "corsaro" per antonomasia. E ovviamente veniva dal mare...
Ecco appunto, qualunque cosa abbia in mente di portarci Mammaddrau negli anni a venire, container di frutta o gasdotti, la pace o la guerra, pile di contratti e investimenti nel suo paese, appalti o barconi di disperati alla ricerca di una vita normale ... sarebbe il caso per noi di cominciare a studiare seriamente l'unica lingua in comune con lui: quella del mare.
20 novembre 2020