Il re è morto ... viva il re!

Mai come al giorno d'oggi la corsa per la difesa degli interessi economici militari e strategici delle grandi potenze mondiali può essere accostata ad una lenta, combattuta e snervante partita a scacchi. Oltre ad essere fra i più antichi giochi di guerra della storia giunti fino a noi, gli scacchi, poggiando sul concetto di “razionalità applicata”, condensano, in sintesi, l’estrema capacità del giocatore di ottenere il massimo della posta per mezzo di tutte le risorse a sua diposizione: organizzative, strategiche, tattiche, ma anche fisiche, psicologiche, interpretative e culturali. A differenza del Risiko, cui si accennava altrove in questo blog (o di altri giochi di strategia), qui l’incidenza della fortuna è limitata al minimo imponderabile. Proprio come durante una guerra.

Gli elementi propriamente bellici sono già insiti nella simbologia stessa del gioco: il re, il cavallo, l’alfiere, la torre altro non sono che i componenti di un esercito d'antan. Con i pedoni che riproducono la fanteria leggera e la regina, a rappresentare il più stretto consigliere del re. Addirittura, l’arrocco simula la costruzione di un accampamento a protezione del re, mentre lo scacco matto, dal persiano “il re è morto”, prefigura la fine delle ostilità, con la conseguente disfatta dell’avversario. Non ci si stupisce dunque se, in ogni tempo, la metafora degli scacchi sia stata utilizzata (e abusata) per descrivere gli svariati scenari militari e, più in generale, i movimenti di geopolitica mondiale.

E oggi? Nello scacchiere internazionale che si dipana in questi ultimi anni, chi è il re? Chi i consiglieri e gli alleati e, soprattutto, chi è il nemico da combattere? Domande le cui risposte non sempre sono di facile interpretazione poiché la geopolitica cambia incessantemente al mutare degli interessi dei vari potenti della terra.

Oggi, rispetto a ieri, la competizione mondiale non ha più due blocchi come durante la guerra fredda. Si può di certo constatare che, accanto a quei pochi “attori principali” (Usa, Russia, Cina, Unione Europea), si stanno facendo strada una serie di “attori non protagonisti” che, per ragioni storiche e culturali, hanno iniziato a concentrare i loro interessi strategici (Iran, Israele, India, Giappone e Turchia), senza contare le diverse “comparse” che, di tanto in tanto, si lanciano in arditi colpi d’ala, per ottenere un minimo di visibilità (Pakistan, Corea del Nord, lo stesso Egitto).

Anche oggi il rischio della guerra nucleare è presente e la probabilità di un conflitto nucleare non è diminuito rispetto al passato, per il semplice fatto che sono aumentati gli stati in possesso degli armamenti atomici, con testate termonucleari. Tuttavia, la guerra nucleare, o in generale una guerra di vasta scala, seppure spesso paventata, sembra fortunatamente non rientrare nei piani di nessuno degli stati potenti perché avrebbe comunque delle conseguenze troppo rovinose. Quindi, messa da parte l’opzione antieconomica dello scontro frontale diretto fra le varie potenze, la vera guerra si sposta verso la conquista e il controllo dello spazio geopolitico mediante una competizione fintamente pacifica.

Sì lo ammetto: sono fresco di cinque stagioni di Homeland, la pazzesca serie televisiva americana, incentrata sulle vicissitudini dell’Intelligence Usa, che racconta, in maniera pregevole, gli ultimi dieci anni di Storia del nostro sciagurato pianeta. Un bingewatching che, al di là delle evidenti forzature di una fiction, ha avuto il merito di risvegliare la curiosità per un mio vecchio pallino: i rapporti di forza, la geopolitica, gli interessi e i metodi che le potenze mondiali mettono in atto per controllare lo scacchiere internazionale. Se non proprio la realtà, Homeland ha almeno il pregio di raccontare un qualcosa che le si avvicina molto.

Sulla definizione di "re" con riferimento agli Usa, mi pare si possa essere sommariamente d'accordo. Quanto poi questo re, affetto da bulimia cronica, possa essere definito "nudo", è cosa da dimostrare. In questo primo articolo, o ricerca, come la si voglia chiamare, mi sono concentrato dunque a riordinare le fila del principale architetto della Storia recente, gli Stati Uniti, riservandomi magari più avanti di delineare le mosse o, meglio sarebbe dire, le “contromosse” dei paesi avversari (se non propriamente nemici) che molto spesso prendono spunto dall’esigenza di non rimanere un passo indietro rispetto all’arrocco in atto da parte di Washington. 

Al di là della sua maschera irricevibile, se Trump ha avuto un merito durante il suo mandato è stato forse quello di aver superato la stucchevole retorica dell’esportazione della democrazia e dei diritti umani, dandoci così forse un’idea più precisa dell’America di oggi. Inoltre, usando una metafora cara al dialetto siculo, Trump ha tagliato “a carni cull’ossu”, stupendo per le sue prese di posizione inaspettate persino nei confronti dei suoi vecchi alleati. Ad esempio, non ha avuto alcuna perplessità nel definire l’Europa come avversario, mettendo in chiaro che qualsiasi forma di apparentamento con il Vecchio Continente (culturale, militare, economico) sarebbe stata comunque percepita con estrema diffidenza dagli Stati Uniti, almeno se non direttamente controllato da Washington. Inoltre, ha fatto sicuramente specie constatare che nei quattro anni di presidenza Trump, gli Usa si siano impegnati a ritirarsi progressivamente dall’Afghanistan e dall’Iraq, ordinando questa estate la rimozione di circa 10 mila soldati dalla Germania, dove comunque rimangono 25 mila unità, il più alto contingente americano in un paese europeo. Un atteggiamento questo, quanto meno sorprendente.

Ma come? Trump? il neo Neanderthal, il capofila del complottismo, del negazionismo, icona del celodurismo a stelle e strisce e di tanti altri –ismi non proprio di stampo pacifista... non si verrà ora addirittura a dire che rischia di passare alla storia come il paladino dell’antimilitarismo? E ovviamente, non è così. C’è qualcosa di molto molto sottile in questa strategia americana che da un lato si concentra sul proprio backyard, sul cortile di casa propria, e dall’altra finge di disinteressarsi dei paesi che tradizionalmente occupava militarmente.

Fin dai tempi di Obama si era già arrivati alla conclusione che, in questa strana atmosfera di languido tramonto dell’Impero, la cruda forza militare non poteva più bastare ad assicurare la supremazia statunitense nel mondo. E già in Libia e Siria i Marines si erano sfilati dalle guerre in prima linea, a favore dell’impiego di gruppi di mercenari e/o terroristici direttamente collegati ai vari servizi segreti occidentali. Un modo "elegante" di fare la guerra, armando gli altri e, così facendo, riuscire a difendere i propri interessi: petrolio, armamenti, lotta al terrorismo, sfere di influenza. Ossia, ad occhio e croce, l’abc dell’atteggiamento del piu' tossico dei manipolatori, né più né meno. E quindi è bene rimarcare che in termini geopolitici non c’è stata alcuna discontinuità fra l’amministrazione Obama da quella di Trump e che quest’ultimo non ha fatto altro che accelerare un processo azionato durante il precedente mandato. Con buona pace dei tanti sostenitori di Obama (me compreso) che per il resto ce l’ha messa tutta per passare alla storia come un presidente dagli alti valori democratici. Tutto questo potrebbe sollevare peraltro molti interrogativi su quanto e in che modo incidano gli orientamenti politici (americani ma anche quelli di casa nostra) sulla famosa “ragion di stato” … ma non mi pare il caso di affrontarli in questa sede.

E quindi, quali sono ad oggi i teatri più importanti dove gli Usa stanno investendo maggiormente in termini di risorse e di intelligence in difesa dei loro interessi? Il Medio Oriente è sempre stato il punto di applicazione decisivo del compasso della politica militare statunitense, spesso utilizzato come argomento di politica difensiva. Dall’invasione del Kuwait, alla cacciata di Saddam Hussein, passando per l’intervento in Afghanistan contro i Talebani fino al recente coinvolgimento contro l’Isis in Siria, la fitta agenda dei Marines prima e degli 007 della Cia dopo, non ha mai perso di vista per un solo momento il suo primo “privilegiato” teatro di guerra mondiale. Per due motivi in particolare: per autodifesa da un lato, combattendo il terrorismo dove lo aveva costretto a rintanarsi e, in secondo luogo, in difesa degli alleati di sempre, Israele (e più recentemente anche Arabia Saudita). In tutto ciò, isolando sapientemente lo stato canaglia numero uno, l’Iran, cui ha imposto un rigidissimo regime sanzionatorio.

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Un altro tratto di continuità con la scorsa presidenza di Obama è rappresentato dalla strategia di contenimento nei confronti di Russia e Cina, definite più volte nei documenti dall’amministrazione Trump come “entità maligne”. La politica di accerchiamento delle due più temibili potenze mondiali concorrenti passa intanto dalla crescente presenza navale e militare nel Mare Cinese, dalla massiccia vendita di armamenti ai potenziali nemici della Cina (Taiwan in primis), dalla destabilizzazione di Hong Kong e di diversi paesi come Thailandia, Kirghizistan, il Kashmir fino al clamoroso caso della Bielorussia, che Mosca considera da sempre “roba propria”. Tutti paesi che, non a caso, potrebbero rientrare nella sfera del progetto di cooperazione della Nuova Via della Seta, promosso dalla Cina e visto di buon occhio dalla Russia. Un modo scientifico per seminare zizzania nel campo dell’avversario, facendo leva sulla sopraffina capacità tutta Usa dell’arte della “tragediatùra” (si direbbe in Sicilia), ossia della manipolazione al fine di soddisfare i propri interessi. Da non trascurare, poi, il sottile subdolo gioco d’intelligence degli Usa al confine fra Cina ed India, dove gli yankees hanno solo da guadagnare dall’eventuale scatenarsi di un conflitto regionale fra questi due giganti: entrambi grandi produttori mondiali e loro diretti concorrenti. Uno scontro peraltro cui si è andati molto vicino quest’estate nel corpo a corpo ad alta quota (sulle cime dell’Himalaya) fra truppe cinesi e quelle indiane per il possesso della valle del Galwan. Una ventina di morti ed incidente poi apparentemente rientrato.

Parte integrante di questa strategia di ampio respiro sono ovviamente le guerre commerciali lanciate da Trump contro la Cina e più in generale contro tutti i paesi produttori: l’inasprimento dei dazi doganali sui prodotti tecnologici, sull’acciaio e sui metalli in generale, sulle auto, gli impianti solari, le lavatrici. Basti ricordare lo spauracchio dei dazi che, un giorno sì e un giorno pure, Trump ha minacciato di applicare (l’ultimo, non più tardi di quest’anno) sui prodotti del food e sul vino: minaccia poi rientrata ma che avrebbe per lo meno azzoppato la bilancia dell’export di paesi come l’Italia, in un anno già complicato di suo.

Sarà per lo meno curioso poi osservare cosa succederà con la politica del nuovo presidente Biden, di fronte al possente nazionalismo e protezionismo sventolato dal suo predecessore. Si ricorderà di recente il lungo tira e molla fatto di minacce e ritorsioni dell’amministrazione trumpiana contro l’azienda hi-tech fiore all’occhiello della Cina, Huawei, guerra conclusa agli inizi del 2020 quando Trump ottenne il semaforo verde della Repubblica Popolare Cinese all’acquisto in due anni di prodotti made in Usa per un valore minimo di 200 miliardi di dollari. Crisi ovviamente rientrata e via libera a Huawei... Anche questa è guerra e anche di queste gli Usa, obiettivamente, non ne perdono una. E il democratico Biden? Percorrerà anche lui lo stesso sentiero di Trump? Magari moderando i termini e gli atteggiamenti provocatori del suo predecessore? Staremo a vedere... 

Più facile da intuire la strategia di contenimento americana nei confronti della Russia. Qui Washington si è concentrata sulla rottura dei rapporti tra l’Europa occidentale e Mosca, grazie anche al rafforzamento della propria presenza nell’Europa Orientale dove ha costruito quasi un cordone protettivo che dai paesi Baltici, passando per la Polonia, Ungheria, Romania e Ucraina isola di fatto la Russia dal principale motore economico dell’Europa: la Germania. Per capire l’importanza dell’iniziativa basta scorgerne il nome con cui è stata battezzata, i Tre Mari, ad indicare l’unione strategica di Baltico, Nero e Adriatico. Se, a questo si aggiunge l’attuale destabilizzazione delle regioni caucasiche, che di fatto ha impedito la creazione di un corridoio Nord-Sud che da Mosca arrivasse fino a Teheran e oltre, fino all’Oceano Indiano, si può intuire che la politica di contenimento della Russia ha fin qui prodotto i suoi effetti desiderati.

Non devono infine stupire gli Accordi di Abramo, di cui Trump è stato, innegabilmente, un abile negoziatore. In questi ultimi anni in particolare l’America è stata patrocinatrice  di un fronte anti isolamento che tende ad ancorare Israele ad alcune monarchie della Penisola Arabica (Bahrein, Emirati Arabi, Arabia Saudita) e recentemente anche al Marocco (notizia di pochi giorni fa). Ovviamente, in tutto ciò c’è una innegabile convenienza degli Stati Uniti, un interesse che potrebbe prescindere dalla “mera pacificazione” di quell’area turbolenta, dal momento che sono milioni gli ebrei che vivono in America, il cui peso specifico in cabina elettorale, oltre che sulla guida dell’economia a stelle e strisce, risulta a dir poco determinante. Non solo, con questo accordo, che a breve potrebbe annoverare la presenza di altri stati arabi ( Oman, Sudan ed Egitto), Washington ha inteso mettere contro il muro le ambizioni antisioniste dell’Iran nell’area e dare una risposta alle mire egemoniche della “triplice alleanza”: Turchia-Qatar-Iran.

In ultima analisi, con l’Europa sempre più dipendente dall’alleato americano e isolata dalle due controparti asiatiche vicine, la Russia da un lato e il Vicino Oriente dall’altro, con la Cina accerchiata per quasi la totalità del suo perimetro sud orientale, gli Usa avranno probabilmente ancora buon gioco per imporre, per qualche decennio ancora, la loro supremazia economica, geopolitica e culturale sul pianeta. Prima dell’avvento dell'era cinese, intendo. Con buona pace dei suoi detrattori peraltro. Se non è proprio uno “scacco matto” questo … poco ci manca.

Ora, per concludere, nell’accostare così insistentemente il gioco degli scacchi alle manovre militari o alle varie strategie geopolitiche in atto, se di certo si fa un grande favore al partito dell’Arte della Guerra, elevandone il concetto, depurandolo delle indicibili brutture e riassumendone invece i tratti più nobili legati alle capacità di logica e di freddo calcolo scientifico, dall’altro lato di certo si fa torto all’arte degli scacchi che con la guerra condivide l’aspetto meramente d’impostazione filosofica (strategia, calcolo e ragione). Il discrimine (per niente trascurabile) è invece tutto qua: gli scacchi non manipolano, non tiranneggiano, non ammazzano, e anzi spesso uniscono i popoli, senza generare indesiderati effetti collaterali.

È del tutto evidente dunque: non è colpa degli scacchi, è che … troppo spesso gli stati si servono degli scacchi per giocare la loro partita piu' cruenta: quella con la morte. Ed è proprio in quel momento che ne abbiamo la plastica conferma:  il re è morto. Que viva el Rey! 

17 dicembre 2020

Commenti

Mello

18.12.2020 19:22

Momento perfetto per questa analisi!