“A muntagna scassau”.
A Randazzo a metà dagli anni ‘80 non si andava certo per il sottile. Era questa l’espressione più comune che sentivo ripetere in giro sulle consuete e puntuali birichinate dell’Etna. In un misto di fastidio, timore, rispetto, ma anche di ammirazione, curioso vanto e orgoglio del randazzese nei confronti della Muntagna che, da queste parti (e in tutti i paesi della cintura etnea) viene vista quasi come una sorta di irripetibile onnipotente Divinità, temibile certo, ma in fondo buona.
L'espressione, tanto colorita quanto paradigmatica sta ad indicare, in maniera inequivocabile, una nuova attività vulcanica che porta con sé tutto il repertorio del vulcano più alto d’Europa: boati fragorosi, spaventosi tremori vulcanici, pioggia di cenere e lapilli, leggera attività tellurica, colate oceaniche e l’immancabile zampillo lavico che ne rappresenta sicuramente l'aspetto più spettacolare. Senza peraltro sorvolare sul doppiosenso squisitamente “ironico” del termine. Il tutto condensato in una parola formidabile: scassau!
E la Muntagna non perde certo occasione di far parlare di sé, condannata a recitare il ruolo che le è proprio: quella cioe' di una perenne magnifica ed impareggiabile prima Star della Natura. Suo malgrado. Dal 16 febbraio scorso è in corso, come tutti sanno, una nuova attività vulcanica con un incessante sfoggio di colonne di fumo alte fino ai 9 mila metri di altezza e conseguente emissione di lava e cenere dal cratere di sud-est. Attività che, se da un lato risvegliano le fantasie di ognuno di noi sul mistero della natura e le sue manifestazioni più spettacolari, dall’altro provocano qualche leggero turbamento agli abitanti del luogo, probabilmente anche ai veterani più disincantati.
Rispetto agli exploit cui ci ha abituati nel recente passato, in questa nuova tornata parossistica forse la componente più peculiare è data dal forte impatto sonoro con cui il ruggito dell’Etna ha ripreso a far sentire la sua voce. Preoccupano di meno invece le copiose colate laviche che regolarmente vengono convogliate in quella sorta di ampio e invalicabile “anfiteatro” naturale che è la Valle del Bove. Mentre la pioggia di cenere e lapilli che si depositano regolarmente in maniera più abbondante del solito sulle strade e sulle verande dei paesi etnei, non sono poco più che un piccolo e fastidioso corollario.
A detta degli esperti c’è comunque da stare tranquilli. L’intensa attività vulcanica di quest’ultimi quaranta giorni sembra sia dovuta “solo” ad un crollo, nella parete Sud-Est, di un po' di materiale che ha innescato una sorta di scivolamento. Insomma uno svuotamento interno di una parte del Vulcano, di certo impressionante ma catalogato dai vulcanologi dell’INGV come “superficiale e con piccoli volumi”.
Tornando a Randazzo, verso la seconda metà degli anni '80. C'erano due eventi che giornalmente, a cadenza quasi regolare, ci portavano a scapicollarci dal pianterreno fino sulla terrazza del terzo piano: una era il passaggio delle coloratissime vittorine della Circumetnea, uno spettacolo! l'altro era l'ennesimo boato fragoroso dell'Etna, autentico richiamo delle sirene per me e mio fratello, curiosi alla pazzia di verificare dall’intensità della nuova esplosione quanto fumo fossero state in grado di soffiare nel cielo blu quelle potenti fauci eruttive.
C'erano due periodi distinti dell'anno in cui io e mio fratellino diventavamo randazzesi autentici. E per proprietà transitiva, etnei. Questo durò finché i miei nonni materni rimasero in vita, ossia fino a quando ebbi i miei 14 anni. Finita la scuola, a metà giugno, dalla ridente, ventosa e “nordafricana” Petrosino, fresca di “indipendenza” dalla madrepatria Marsala, mio papà accompagnava la nostra famiglia a Randazzo, dai nonni materni dove trascorrevamo metà delle nostre vacanze estive. Stesso discorso a cavallo delle festività natalizie, quando Randazzo si trasformava in un incantato e freddissimo (almeno per noi “maghrebini”) borgo medievale di montagna.
Quanti bellissimi ricordi etnei potemmo accumulare nel pieno della nostra infanzia! Fu così che crescemmo a forza di “nuvolette” a colazione, biscotti a base d’uovo ricoperti da una lucida patina croccante; il nostro pane quotidiano si trasformava in “buccellato”, ossia il buco con il pane intorno, da non confondere con il “pani” vero e proprio che a differenza del primo, buco non ne aveva; mentre sotto natale ci rimpinzavamo di “tirrimulliri”, dal nome quasi impronunciabile, dolce tipico che, all’ingrediente principale del vino cotto combinato con la farina, univa frutta secca, mandorle, noci e nocciole, con un pizzico di cannella che ne esaltava il sapore squisito.
Per non parlare delle mie solitarie esplorazioni del centro storico della città dove, dal quartiere un po' decentrato di San Vito dove i miei nonni abitavano, mi avventuravo a caccia di un’edicola per l’immancabile acquisto del numero settimanale di Topolino o delle figurine. E fra la piazza dell’Annunziata (affollatissima nelle domeniche di mercato) fino ad arrivare al quartiere San Martino, attraversando decine di locali da cui uscivano fuori inebrianti profumi di dolci e un odore di caffè buonissimo (indimenticabile), venni scoprendo le chiese più belle che avessi mai visto, come la straordinaria Basilica di Santa Maria, tutta rivestita di roccia di basalto nera. Una novità assoluta per i miei “canoni marsalesi”, laddove le chiese erano poco più scure dell’avorio, e il giallo accecante della luce le rendeva simili a dei Minareti musulmani.
La passione per il vino, poi, non può certo essere un caso nella mia vita. Se “pane vino e zucchero”, autentica delizia della nonna paterna che soleva così allietare le nostre merende marsalesi, rappresentava sicuramente il mio battesimo precoce nel mondo del vino, fu però a Randazzo che imparai a sorseggiare da un calice il Nerello Mascalese durante i pasti. Si trattava di quel vinello di casa, sincero, dal colore tenue quasi rosato, leggermente frizzantino e profumatissimo, prodotto genuinamente dalla vigna di mio nonno, nonche' spillato giornalmente dalla sua antica botte di castagno. Anzi dalle due piccole vigne: una sotto Montelaguardia, l'altra situata a contrada Donna Bianca. Ricordo ancora la gioia irrefrenabile che mi avvolgeva quando la sera mio nonno annunciava di volermi portare con sé in vigna l’indomani. Ero così eccitato all’idea da non riuscire a chiudere occhio durante la notte.
E a proposito di Montelaguardia, fu tanta la paura dei randazzesi e dei miei all’inizio della primavera del 1981, durante una delle più rovinose colate laviche degli ultimi decenni. Quando il magma, imperterrito, sgorgando da una bocca situata a 1800 metri sul versante nord dell’Etna si riversò tra Randazzo e la sua frazione più prossima situata ad est, Montelaguardia, distruggendo nel giro di una sola settimana case di campagna e coltivazioni, vigneti e case vinicole arrestandosi poi improvvisamente, dopo un percorso di oltre 7 km, sulle acque del fiume Alcantara. Quella colata aveva lambito la vigna di mio nonno, sfiorando per un soffio, per poche centinaia di metri, la stradina di accesso alla sua proprietà. Di fatto risparmiandola miracolosamente. Ho un ricordo ancora sbiadito di quella volta, dovette essere l’estate successiva alla colata, in cui i miei ci portarono sul luogo del disastro, dove la lava aveva sepolto sotto una coltre spessa circa cinque metri anche la Statale Randazzo-Linguaglossa, recidendo impietosamente, con mio grande dolore, la linea ferroviaria della Circumetnea.
Fu poi da Randazzo che imparai a conoscere e a studiare tutti i colori dell’Etna. Dalla finestra della mia cameretta esposta a sud, di fronte al gigantesco Vulcano, mi ritrovavo così a volte a tracciare sentieri immaginari sulla montagna che sembrava cambiare colore ad ogni momento della giornata. Dalle enormi chiazze di nero che sembravano risalire verso la bocca centrale, attraversavo con lo sguardo boschi verdi di faggio, pini e pioppi, che a secondo delle stagioni si tingevano di venature di rosso giallo e verde. Nelle nitide giornate d’ estate poi, l’ultimo anello dell’Etna, quello desertico, modellato dalle continue eruzioni, dove non attecchiva nessuna pianta, serviva per la mia fervida fantasia come un luogo mitico, anello di congiunzione con la luna e i suoi immaginari paesaggi siderali.
E a proposito di miti classici, sono moltissime le leggende che vedono come protagonista l’Etna. La sua gigantesca mole e le sue eruzioni, a volte disastrose, a volte di una bellezza spettacolare, hanno convertito un semplice vulcano in un luogo mistico, zeppo di leggende popolari e di miti provenienti dalla Grecia classica.
Una delle leggende narra, ad esempio, che la Sicilia fosse sorretta da un poderoso gigante, con tre teste, di nome Tifeo. Irriducibile nemico di Zeus, tentò di conquistare l’Olimpo, ma questi lo condannò catapultandolo dentro l’Etna. Qui rimase imprigionato, non smettendo di sputare fuoco e fiamme, in una posizione alquanto scomoda. Sulla sua mano destra poggia infatti Peloro (Messina), sopra la mano sinistra nasce Pachino, mentre Lilibeo si trova giù vicino ai suoi piedi, e sopra la testa ci sta l’Etna. Ancora oggi, inferocito con Zeus, Tifeo spesso vomita fuoco e fiamme dalle sue ampie fauci, e quando tenta invano di divincolarsi dalla sua scomoda posizione, induce terremoti, in tutta l'isola.
Come non ricordare poi la figura del Dio Efesto che qui, negli antri cavernosi della Muntagna aveva stabilito la sede delle sue officine, dove si ingegnava a forgiare grazie all’utilizzo dei suoi metalli le suppellettili e i gioielli più preziosi di tutto l’Olimpo.
Le leggende tramandate da Esiodo e da Tucidide, mutuate sull’Odissea di Omero, indicano l’Etna come la Terra dei Ciclopi, luogo dove Ulisse si scontra con Polifemo, accecandolo dopo averlo fatto ubriacare. È dalle pendici dell’Etna che il Ciclope, cieco e iracondo, scaglia contro le imbarcazioni dei greci in fuga degli enormi massi che, secondo la tradizione, divennero le Isole dei Ciclopi, situate nello specchio di mare antistante Aci Trezza.
C’è infine un modo per spiegare ai bambini il fenomeno dell’eruzione dell’Etna? Niente di più semplice e divertente, raccontando loro la leggenda del gigante Encelado. Tutto iniziò quando Encelado, il maggiore e il più violento dei giganti, decise di rubare il trono di Zeus e di governare il mondo al posto suo. Per poter raggiungere le altezze dell’Olimpo costruì così, insieme ai fratelli, una sorta di scala accatastando una sull’altra tutte le montagne del mondo. Ma, accortosi della minaccia incombente, Zeus scaglierà sui giganti un fulmine che li accecherà e li farà precipitare a terra. Lo stesso Encelado, precipitato pure lui, rimarrà sepolto sotto l’Etna. E la sua collera divenne così intollerabile da iniziare a sputare fuoco e fiamme dal cratere Etneo. Encelado sembra ancora oggi essere arrabbiato con Zeus e ogni tanto, ricordandosi dell’affronto subito, scatena il suo furore emettendo dalla bocca dell’Etna fuoco, cenere e lapilli.
Per concludere questa sorta di, se volete, personale lettera d’amore alla Muntagna. Non credo sia un caso e non può essere solo il destino che mi ha riportato, ormai da più di sette anni, da Marsala sull'Etna (stavolta pero', versante sud), in questa sorta di “emigrazione orizzontale”, come la chiama scherzosamente un mio caro amico. In questi tempi bui di pandemia, di dura limitazione degli spostamenti, la mia vita si svolge tutta a quota 600 metri: casa e lavoro (ok, ammetto: niente chiesa :-). Eppure, a parte gli affetti lontani dei miei cari, e a parte la “normalità” delle cose che questa pandemia ci ha rubato, a questa altezza e a due passi dalla Muntagna, mi sembra non mi manchi nulla.
Ogni tanto guardo con affetto l’Etna, ricordando che dall’altra parte c’è Randazzo, con i suoi abitanti dalla parlata strana (come quella divertentissima di mia mamma), le sue chiese, le nuvolette, le decine di campanili e tutti quei luoghi da dove proviene metà del sangue che mi scorre nelle vene. E quando penso alla Muntagna tutta (e tutto quello che ci sta intorno) non riesco a fare a meno di immaginarla con gli occhi di un bambino fiducioso e speranzoso nel Futuro. Qualunque cosa questo significhi. Non può dunque essere un caso se i miei figli cresceranno anch’essi all’ombra della mitica Muntagna …anche se ogni tanto “scassa…”. E ovviamente … vacanze rigorosamente marsalesi!
Buona Pasqua
5 aprile 2021
PUBBLICATO SU:
A) https://itacanotizie.it/category/blog/la-corda-pazza/
B) https://www.ilpensieromediterraneo.it/tag/gianvito-pipitone/
Carmelo
02.04.2021 22:12
Ricordi difficili da cancellare. Grazie per questo racconto