Quanto doveva essere confortevole un tempo ritornare a casa dopo il lavoro e, dismessi gli abiti della giornata e inforcate le pantofole, ritrovarsi nella rassicurante penombra di una poltrona a srotolare lentamente il giornale della sera? oppure, in attesa dell'ora della cena, lasciarsi trasportare da un luogo all’altro del mondo all’ascolto del comunicato del radio-giornale o dei primi vagiti del tele-giornale?
Quanto sono lontani ormai i tempi in cui la realtà dell’uomo veniva misurata dall’oggettività di quanto gli succedeva tutto attorno? Il nostro uomo sembrava a quel punto vivere in una specie di paradiso terrestre, non tanto perché fosse immacolato, ma perché non aveva motivo di considerare nessun altro stato di cose. Per lui, l'informazione era nel suo diritto. E in quanto tale doveva essere scientifica, quasi tassonomica. E il fatto che non fosse misurabile un tanto all’etto, ma che al contrario passasse da un filtro autorevole, ne rafforzava l’idea di un rifugio sicuro, quasi infallibile. Certo, oggi staremmo giornate intere a discutere se quella di allora fosse la giusta prospettiva da cui guardare il mondo. O se invece non fosse una sorta di trompe l’oil, un’immagine ingannevole, ridotta e ristretta della realtà che lo circondava.
Con il senno di poi, si può affermare che per quanto guidata, controllata, in alcuni casi edulcorata e parziale l’informazione del secondo dopo-guerra risultasse comunque più genuina rispetto a quella che ci viene propinata al giorno d’oggi. Basta guardare uno di quei programmi vintage su Rai Storia per ritrovarsi d’improvviso nel mondo delle favole. Lento e suadente. Così come sembrava dovessero accadere le notizie a quei tempi: lentamente e con decisa convinzione e perentorietà.
Tutto il contrario di oggi dove, alla frenetica, iper-polverizzata e prismatica informazione radio-televisiva, sovente di parte, si aggiunge quella dichiaratamente parziale ormai della carta stampata, e soprattutto quella enigmatica digitale, vero e proprio new kid in town sbucata dalle profondità più insondabili del web. Basta affacciarsi su una delle piattaforme digitali di oggi, google, facebook, twitter, youtube, instagram da cui passa tanto dell’informazione considerata ormai mainstream, per rendersi conto che qualcosa non sta funzionando per come dovrebbe.
L’informazione di stampo classico, quella imparziale per capirci, ai tempi d'oggi mostra tutte le sue rughe e tutti i segni di un invecchiamento precoce. E il degrado a cui viene esposta dai mala tempora e dall'incuria degli uomini la rendono poco più che passabile. Di certo monotona e francamente inappetibile. Specie da quando sembra mostrare su di sé tutti i sintomi di una malattia difficilmente curabile: la disinformazione. Una malattia che sembra aver subito una brusca accelerazione in questi ultimi anni, rivelando una pericolosa recrudescenza del quadro clinico, durante i recenti trascorsi del quadriennio di presidenza di Donald Trump alla guida dell' America. Vero e proprio spartiacque fra due opposti sistemi di comunicazione.
Ormai si parla apertamente di ecosistema dell’informazione non tanto per metterne in risalto il suo carattere di pluralismo, quanto per voler sottolineare un habitat artatamente infettato e irrimediabilmente contaminato. Le varie piattaforme risultano traboccanti di sottoprodotti tossici: in cui la fanno da padrone la violenza verbale, la disinformazione, la misinformazione, le fake news, l'odio e il razzismo di ogni ordine e grado, l’intereferenza fraudolenta nei sistemi informatici, i troll, il sexual harassment, il revenge porn e chi più ne ha più ne metta.
Tutti noi, chi più chi meno, siamo ormai contaminati dalla disinformazione. La sensazione è simile a quella di quei teneri gabbiani costieri, venuti a contatto con le scorie di una petroliera che ha colpevolmente finito per riversare in mare tonnellate di greggio. Ci siamo macchiati di petrolio e non riusciamo più a liberare membra, ali e becco per tornare liberi e leggeri a volteggiare nel cielo limpido.
Eppure è accaduto tutto quasi per caso, quella volta in cui, fra curiosità e incredulità, ci siamo avventurati sui social media, ciascuno di noi con diverse aspettative, ognuno alla ricerca di un pezzetto di contenuto, un po' di becchime per saziare la propria fame giornaliera. Certo era quasi impossibile sapere in che stato lo avremmo trovato quel cibo: se scaduto, maleodorante o putrefatto. O se, al contrario, appetibile e in buono stato di conservazione. Pur tuttavia lo abbiamo mangiato come fosse l'ultima cosa che eravamo chiamati a fare. E non contenti di ciò siamo ritornati più e più volte a mangiarne. E chissà quante volte ancora ci ritorneremo.
Nonostante tutto, molti di noi hanno la piena consapevolezza che il sistema sia truccato, in un certo senso corrotto. Lo pensano più del 50 % degli interpellati in un sondaggio del 2019 lanciato in America dove, comunque, lo svelamento del trucco non impedisce alla stragrande maggioranza degli utenti di abbuffarsi di social media. Come una coazione a ripetere di freudiana memoria.
Ma com' è dunque possibile tutto ciò ? Quale collante così forte può consentire lo sviluppo di un rapporto convenzionale con i social media così imbevuto di dipendenza? E c'è un modo per tornare indietro, uscire dal tunnel di tale dipendenza e ritornare a respirare in piena libertà ?
Leggevo su un articolo edito nell’ultimo numero dell'autorevole rivista newyorkese Harper’s, che un’associazione mondiale no profit, la Aspen Institute, cui stanno a cuore le leadership mondiali illuminate, ha annunciato qualche mese fa la costituzione di una commissione che possa aiutare a far luce sui disturbi dell'informazione. L’hanno chiamata Big Disinfo e si propone di appurare e, se possibile, isolare vari tipi di tossicità sulle piattaforme dei social media. Una sorta di risanamento ambientale, proprio lo stesso che si è chiamati ad operare il giorno dopo un disastro ambientale di vaste proporzioni: solo che ricostruire questo habitat così depauperato non sarà di certo una passeggiata dal momento che il livello di contaminazione appare altamente compromesso.
Scopo ultimo è capire come le istituzioni (il governo, la società produttiva e quella civile) possano lavorare insieme per impegnarsi a "ricostruire nella popolazione la fede nella realtà basata sull'evidenza e sul dato di fatto". Ma in un mondo dove la classica relazione causa / effetto non è più di moda, potrebbero non bastare più le teorie incentrate sulla ragione e sull’esperienza e il detto “elementare Watson!” potrebbe essere ormai ampiamente superato.
Ma non è solo un problema di teoria. Qui la posta in gioco è molto alta, non fosse altro perché questo gioco impatta con il corretto funzionamento della democrazia: perché altrimenti politici, società e istituzioni varie si preoccuperebbero tanto di quello che la gente legge e reputa sia la verità o meno? A scomodare il buon vecchio Aristotele ci si sta davvero poco e lo stesso Platone con il suo mito della caverna potrebbe venirci in soccorso.
A questo punto sarebbe facile buttare la croce addosso alle Big Tech: le società che hanno da qualche lustro rivoluzionato il mondo della comunicazione e dell’informazione con i loro social media. Una parola! più facile a dirlo che a farlo. Prima che ci si potesse scagliare contro il potere incontrastato delle piattaforme dorate, Mark Zuckerberg, il furbo magnate di Facebook, era già salito sul carro dei pragmatisti, cospargendosi il capo di cenere. Di fatto ammettendo la responsabilità del suo Facebook nell' influenzare gli utenti tramite la facilità di creazione di fake news. Il suo mea culpa è arrivato qualche tempo dopo la vittoria di Trump alle elezioni del 2017. E per quanto da allora il web sembra essere più "normato" e sottoposto a regole più stringenti, che in molti casi limite hanno portato alla soppressione di centinaia di migliaia di profili, il problema della tossicità rimane quanto mai vivo e attuale.
Quindi le piattaforme dei social media non solo vivono di vita propria ma mutano anche al mutare delle esigenze. Si trasformano. Prendono le sembianze di ciascuno degli utenti cui mirano a saldarsi in un rapporto di perfetta simbiosi. Ma c’è una profonda contraddizione in tutto ciò. Facebook ad esempio trae profitto convincendo gli inserzionisti che può standardizzare il suo pubblico, potendolo persuadere commercialmente. Ma come potrebbe contemporaneamente affermare che le persone non possano venir persuase dai suoi contenuti tossici? Quale potrà essere, dunque, la soglia di accettazione contenutistica entro la quale le piattaforme saranno disposte a sopprimere i profili infettati? a che altezza dovrà essere posta l’asticella?
C’è di più. In un mondo che tende a restringersi, accorciandosi politicamente sempre più, come si evolverà nei prossimi anni il ruolo politico delle piattaforme? compresse fra i due poli, estrema destra ed estrema sinistra (vedi articolo: Illiberali di sinistra Unitevi), come si porranno le Big Tech di fronte a scenari diversi e forse ancora più polarizzati?
La tendenza poi a trattare le persone più come consumatori che come uomini e donne in carne ed ossa apre un altro fronte caldo sulla questione: la manipolazione. A che grado di manipolazione le piattaforme esporranno i loro utenti limitandone la libertà di espressione in maniera sistematica e orizzontale?
A parziale difesa del legislatore, bisogna comunque ricordare che esistono delle importanti autorità antitrust (in Europa quanto in Usa) che spesso e volentieri si ritrovano a dover comminare enormi multe per cause legali e procedimenti antitrust alle imprese digitali colte in fallo. Ma riusciranno leggi e normative a scoraggiare il potere sempre più invasivo e debordante delle Big Tech?
Intanto, in contrapposizione al devastante potere delle piattaforme digitali, si registra nell'etere un nuovo mood, un sentiment che timidamente sta affiorando nel sottobosco del pensiero critico. Nel 2018, il Financial Times ha dichiarato il termine techlash fra i neologismi più importanti dell’anno, insieme a tossico (nel contesto dell’informazione). Si tratta, in breve, di una parola che esprime il contraccolpo psicologico negativo che una parte dei consumatori digitali hanno via via sviluppato nei confronti delle Big Tech dell’Informazione e tutto quello che esse rappresentano. A giudicare dalla quantità di pubblicità negativa che le aziende continuano ad attirarsi, il techlash sembra possa ancora ritenersi una parola attuale. Ma sia per quanto riguarda i mercati che per la stragrande maggioranza degli utenti sembra ancora una parola priva di significato. E mentre le piattaforme continuano ad incassare consensi, a registrare nuovi profili e a generare -suo malgrado- fake news oltre che lauti profitti per tutti, cresce comunque in maniera non troppo sotterranea questa avversione alla standardizzazione selvaggia del web (informazione superficiale/ semplificazione dei concetti) che le Big Tech tendono ad imporre per favorire inclusione e proselitismo.
Ma, ancora una volta, le piattaforme dei Big Tech non fanno altro che difendere i propri interessi sfruttando lo Status Quo. Chiedersi sempre che cosa cercano davvero le persone sul web, è di certo un buon viatico per rimanere sulla cresta dell'onda. E se c'è una cosa che facebook and Co. fanno bene è proprio questa: precise ricerche di mercato. Perché gli utenti così come i clienti, i pubblicisti, gli inserzionisti e tutti i fruitori del circo mediatico digitale, alla fine dei giochi cercano tutti la stessa cosa: la persuasione. Ossia che il pubblico/cliente/fruitore et.che loro stessi siano stati convinti. Stop.
Alcuni studi comportamentali sull’argomento sembra tendano ad affermare che il pubblico non ha bisogno di essere persuaso dalla ragione, ma può sicuramente essere addestrato attraverso la ripetizione ad adottare nuove abitudini di consumo e di pensiero. E questa sembra purtroppo suonare come una pietra tombale per chi ancora crede, nonostante tutto, nel valore e nel potere della ragione.
Almeno per questa generazione, non mi pare probabile un’inversione di tendenza. La disinformazione, piuttosto che la propaganda online, le fake news, le notizie ultra-partigiane, i clickbait, i rumors e le centinaia di teorie del complotto continueranno indisturbate ad infestare le piattaforme web. Perché piacciono. Perché sono maledettamente intriganti. Perché creano uno storytelling alternativo, perché si prestano a sovvertire la realtà e perché, sopratutto, creano un mare di fatturato.
E per finire, torniamo per un attimo al concetto di disinformazione, per stupirci di scoprire che nella realtà non esistono due persone che parlando di “disinformazione” intendano dire la stessa identica cosa. Quello della "disinformazione" è un principio che sfugge ad una definizione standard e univoca. La disinformazione è un’ampia categoria che descrive i diversi tipi di informazione che si potrebbero incontrare online e che potrebbero portare a percezioni errate sullo stato attuale del mondo.
E in quanto tale, ciascuno potrà sempre opporre al suo interlocutore di essere nel giusto. Ecco perché in questo senso la disinformazione avrà sempre partita vinta, fin quando chiunque potrà impugnare la propria verità, indossare casco e mimetica e caricare giù pesante a testa bassa, magari anche a suon di manganello... Fin tanto che riuscirà a buttarla in caciara, sarà sempre lui a vincerla. Con buona pace di Aristotele e Platone.
20 settembre 2021
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